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ALEATORIA QUIETE - Antonello Scotti


a cura di Flavia Alfano

Questa notte non ho sentito cani abbaiare
“Il fuori è la, aperto, senza intimità, senza protezione né ritegno […]
mostra che a questa stessa apertura non è possibile accedere, poiché il fuori non libera mai la sua essenza; non può offrirsi come una presenza positiva- cosa illuminata dall’interno, dalla certezza della propria esistenza- ma solo come l’assenza che si ritira il più lontano possibile da se stessa e sprofonda nel segno che produce perché si avanzi verso di essa, come se fosse possibile raggiungerla”. (Foucault , Il pensiero del fuori)
Aleatoria quiete, di Antonello Scotti è un coinvolgente circuito costruito, con il suo essenziale modus operandi, su quell’assenza, che mostra, senza dimostrarla, l’attrazione per un personale concetto di latenza. Coltivando costantemente l’atto espressivo come fuga centrifuga dall’evidenza espressiva e leggero spostamento delle visuali, anche con questo lavoro Antonello deposita, esigue tracce, coglie le delicate impronte della sua interiorità, confidando sul quel minimum che radicalizza gli eventi della (sua) vita e che li restituisce in forma di rarefatti e fini residui. Convitata in scena, come teste, è l’esistenza umana resa attraverso la lievità di piccoli oggetti, ovvero intimi souvenir e scarne confidenze attinenti alla propria cronaca. Indietreggiando, Antonello ritrova e forse esperisce il proprio limes, partendo da una frase, che è incipit ed epilogo di tutto questo frugale lavoro : questa notte non ho sentito cani abbaiare. La frase scritta e pronunciata circolarmente, apre e chiude l’installazione; essa manifesta l’ombra irrequieta dell’infantile smarrimento, rispetto all’incessante latrare notturno dei cani, lasciando trapelare quel timore ingenuo per il vuoto. A tale apprensione, da bambino, corrispondevano i segni del tranquillo linguaggio familiare, allora, le rassicurazioni consolatorie della nonna liberavano un ordine antico delle cose, radicato nella dimensione domestica; l’abbaiare verso il nulla, proveniente dalle tenebrose campagne, diveniva, grazie alle parole un manifesto principio di arcana protezione; sorvegliando l’oscurità, i cani combattevano, una lunga, eterna, immaginaria battaglia, svolta nel silenzio, al buio, ben oltre la notte, oltre l’assenza della coscienza e del sonno. A far trasalire, ora, sono altre inquietudini, altri turbamenti, che risiedono in quel fuori dove non si odono più i vigili cani combattere e sorvegliare il nulla; le fattezze della vuota cecità, un tempo oscura e paurosa, celano le sembianze e l’ineffabile sostanza del cosmo; il timore è declinato in temenza, azione di soggezione e cautela a distanza ma anche referenza verso l’infinito ciclico e dinamico. Il dubbio del fuori evoca l’indecifrabile ed enigmatica sostanza dei principi, invisibili. Dunque, occorre avanzare, malfermi verso le leggi del disordine, provando a operare, costruire e rischiarare con altre parole. In un emblematico cantiere ricostruito in galleria, il frammento di Anassimandro, si fa oracolo, prorompendo leggero come suono nello spazio candido, in progress, rivelandosi attraverso la voce del giovane Filippo Scotti che, in un mantra circolare, pronuncia :
[I] i contrari si generano separandosi dal principio originario illimitato;
[II] per natura le cose si generano dai contrari e si estinguono nei contrari;
[III] tutte le cose possono esistere solo a spese delle cose loro contrarie;
[IV] il loro esserci è dunque ingiustizia, che scontano corrompendosi e avviandosi all'estinzione nel corso del tempo.
Un figlio, riempie con la voce il primo ambiente scenico, mostra l’immagine di un assolato cosmo in attesa, il buio si fa accecante; non è da temere ma da vegliare, in quanto luogo di eterno agire attraverso il mutare dei contrasti che, in un vortice di partenze ed arrivi, generano e degenerano ciò che prima è. Ciò che arriva, parte. Le parole del figlio, aprono con enunciati; Antonello rievoca un atto fondativo basilare e parte narrando il bilico tra farsi e disfarsi, ascendere e discendere, con piccoli, e non conseguenziali atti percettivi, che dipanano un caos organizzato e coraleIl Narrare in questo caso rimanda a gnārus colui che è consapevole, mentre nello spazio bianco della galleria, la voce si insedia, ed occupa lo spazio del cantiere umano, ostinatamente e persistentemente in fieri. L’immagine è latente, si esplica obliqua e schiva, innocente e leggera, quasi accidentalmente si dichiara nel secondo ambiente attraverso quel muro costruito con veracità e lasciato incompiuto a metà tra vari scarti edili in un allegorico percorso di perenne erosione del linguaggio visivo. Il muro suggerisce la base semplice, essenziale; è un fondo, sul quale sono presentati, a guisa di principi originari, due ritratti, sotto l’impietosa e sgradevole luce di un faro predisposto dagli operai per lavorare. Uomo-donna, figlio-figlia, essi, come contrasti o trionfi rinascimentali, aleggiano sospesi su ciò che fummo e su ciò che sarà, volti eterni, tra staticità e dinamismo, forse, essenze allusive dei principi di responsabilità e speranza ma anche membri dei due infiniti che si incontrano di rilkiana memoria. Sullo sfondo dei purissimi ed incorrotti volti, gli olivi di un hortus conclusus o un probabile giardino del Getsèmani testimoniano il raccoglimento meditativo prima della prassi, prima del logos. Antonello accetta, declinandola, la via della “trasformazione ” degli opposti, un tragitto necessario e comune che lo porta a conferire una sorta di familiarità lessicale con le antitesi mondane, qui rese più vicine ed accettabili e che tuttavia conservano la loro assoluta paradigmaticità. Non c’è un percorso e men che mai una narrazione, piuttosto un riservato monito, un discreto viatico che accompagna l’uomo che indosserà le grandi scarpe di legno, disposte in un angolo della stanza, ed avanzerà barcollando nel cantiere ancora fresco. Lontano, in un altro spazio, echeggiano già le prime prove di vocalizzi ed ancora parte un nuovo e medesimo ciclo, un altro tragitto ricomincia dalla voce: questa notte non ho sentito cani abbaiare.

Flavia Alfano

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