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L'ARTE E LA VITA NELLE MANI - Vincenzo De Simone


a cura di Stefano Taccone

Ferita e balsamo

Più volte nelle Sacre Scritture l’uomo è sospeso tra ferita, intesa come lacerazione inflitta dal peccato, e balsamo, figura di Dio, colui che risana e guarisce l’uomo dalle piaghe dell’errore usando la Sua misericordia. L’arte per Vincenzo De Simone partecipa del medesimo dualismo: solo che se nella visione giudaico-cristiana l’una succede all’altra, nel caso della pratica artistica i due momenti non solo sono sincronici, bensì tendono pressoché a coincidere.
Essa è ferita - come quella della pelle di un ginocchio che venga accidentalmente squarciata da un aguzzo spuntone di roccia, per cui dapprima fuoriesce del sangue, successivamente il nostro sistema biologico interviene a rispondere con la cosiddetta crosticina e quindi, talvolta, con quel tessuto fibroso che chiamiamo cicatrice -, ma soprattutto, più in generale, come ogni affondare le proprie mani o i propri strumenti entro la fisicità di un corpo, che per l’artista può anche essere inanimato. Ecco perché la dimensione della sofferenza se non scompare nella sua accezione di ferita è quanto meno trascesa da una più ampia, ove è innanzi tutto figura del mutamento. La ferita del corpo umano è appunto mutare, ma solo una delle tante tipologie del movimento azione-reazione cui il corpo-materia-materiale può essere sottoposto. Una ferita in un corpo di ghiaccio produrrà una risposta di un certo tipo; una ferita in un corpo di vetro un’altra ancora; una ferita causata da una pennellata, da una matita, da cuciture o da un taglio acuto in un parallelepipedo è già qualcosa che ci fa intravedere la pratica artistica ed in particolare le opere di Vincenzo De Simone.
In realtà all’origine del suo discorso della ferita c’è senz’altro un più recente motivo biografico – che però è spunto che lo ha stimolato verso la riflessione e non certo lo ha condotto ad additare un narcisistico oggetto di indagine -, legato alle vicissitudini della sua salute, alle delicate operazioni cui si è dovuto sottoporre – non è un caso che in questa mostra siano coinvolti un epatologo, Antonio Ascione, ed un chirurgo, Uberto Cillo, entrambi già suoi medici ed amici e, nel caso del primo, già partner di due sue precedenti performance artistiche -, ma esso non è stato che una conferma, su di un piano differente, di una rivendicazione sull’arte che De Simone accampa da lungo tempo, tangibile tanto in queste ultime opere quanto nel suo progetto Teatro Contadino – risalente alla metà degli anni settanta -, pure apparentemente distante anni luce dalla mostra in esame.[ Cfr. S. Taccone, Mettere in scena la campagna
Il Teatro Contadino di Vincenzo De Simone negli anni Settanta ed oltre, in “roots & routes”, Roma, anno VII, n. 26, Settembre-Dicembre 2017; http://www.roots-routes.org/mettere-scena-la-campagna-teatro-contadino-vincenzo-de-simone-negli-anni-settanta-ed-oltre-stefano-taccone/] La convinzione cioè che la componente fabbrile possa conferire non solo un elemento di nobiltà all’arte, ma anche un surplus di conoscenza, assunto non troppo distante da quanto peraltro alcuni teorici contemporanei vanno sostenendo da qualche tempo – penso innanzi tutto ad un personaggio come il sociologo statunitense Richard Sennett ed al suo auspicio dell’avvento di un nuovo, fecondo connubio tra mente e mano.[ Cfr. R. Sennett, The Craftsman, 2008, trad. it. L'uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008.] Non la pura e semplice istanza, dunque, di un ritorno al mestiere contro il concetto, che pure potrebbe essere un rischio non secondario in cui incorrere - per quanto l’artista sia convinto del sempre più avanzato sfiorire della pratica artistica come lavoro “corpo a corpo” non tanto nelle nuove generazioni di artisti, quanto nello star system dell’arte contemporanea che però diventa inevitabilmente, quanto perniciosamente, addirittura normativo per una quantità non trascurabile di artisti apparsi sulla scena negli ultimi decenni.
Ma l’arte è anche balsamo, in quanto terapia che sana le ferite questa volta non solo del corpo, ma anche dell’anima – e qui De Simone rivela tutto il versante spirituale della sua concezione rigettando ogni possibile sospetto di materialismo e dimostrando piuttosto un punto di vista in cui l’immanenza e la trascendenza non si combattono, ma sono in cerca di un sempre rinnovato equilibrio -, proprio come per Herbert Marcuse tale ruolo era svolto dalla filosofia. E l’arte, il suo pensiero, la sua pratica, sono probabilmente i motivi non secondari che hanno gli permesso in questi anni di vivere non ostante tutto felice, di far sì che gli acciacchi della carne non si raddoppiassero, come ahimè facilmente può accadere, in acciacchi della psiche. Chi non crede nell’eresia di una pratica creativa come strumento per accumulare denaro, e nemmeno gloria, non rischierà mai di perdere quel dolce piacere dell’invenzione che solo un artista inteso nel senso più ampio del termine - come colui che ha ben presente quella soave magia del flusso creativo che però non necessariamente si esplica soltanto nell’arte e tanto meno soltanto in quelle visive, ma può trovare luogo anche nella botanica, nella cura degli animali e persino nella maternità o nella paternità – può conoscere e sperimentare.
L’arte possiede così forse per De Simone un valore para-religioso, e l’azzurro che pervade tutta la mostra – quello giottesco della Cappella degli Scrovegni, quello caro a Kandisky, quello semplicemente del cielo, benché di un cielo un po’ irreale ed onirico… - non è che un chiaro, risentito riferimento alla dimensione della spiritualità. Nulla ha a che fare tuttavia la religione dell’arte in cui crede De Simone con quanto, secondo Jean Gimpel - grande vituperatore del fenomeno - avviene alla fine del Diciannovesimo secolo, ovvero con la nascita dell’estetismo.[ J. Gimpel, Contre l'art et les artistes ou la Naissance d'une religion, 1968, trad. it. Contro l'arte e gli artisti. Nascita di una religione, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.] L’arte come religione del nostro riguarda infatti l’ideare ed il fare ed è attraverso il progettare ed il realizzare che conferisce “salvezza”. L’arte come religione dell’estetismo è invece qualcosa di - talvolta anche ottusamente - contemplativo e persino idolatrico. L’uomo non fa in realtà che adorare un pur sofisticatissimo mascheramento di se stesso nel trionfo radicale ed escludente dell’artificio, condizione in cui la complessità della realtà viene spazzata via per mezzo di un solo potente ma effimero colpo di spugna, rappresentato dalla ritirata in un mondo ideale all’insegna del trionfo del mero gusto. Si rammenti il romanzo Controcorrente di Joris Karl Huysmans, con il suo celebre protagonista Des Esseintes; esso non è peraltro probabilmente che la più aspra ed amara denuncia - benché insieme anche la più altra celebrazione - che provenga da uno scrittore di quell’epoca su quell’epoca stessa! L’attitudine religiosa di De Simone implica vice versa un’apertura totale alla proteiformità del reale, anche nelle sue più recondite sfaccettature nonché inteso non come mero realismo di ciò che è immediatamente visibile agli occhi, ma come dimensione più profonda che tiene dentro l’accezione assolutamente reale, nel senso di effettivamente esistente, dell’invisibile o del diversamente visibile, cosa che peraltro le pratiche cultuali più antiche e le religioni stesse, molto prima dei surrealisti, ci hanno insegnato.

Stefano Taccone





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