"PER ASPERA AD ASTRA" - Salvatore ManziEPIFANIA E NASCONDIMENTO di Stefano Taccone Ormai da oltre dieci anni il percorso artistico di Salvatore Manzi è descrivibile come un continuo quanto mutevole cammino all’insegna dell’intreccio tra ricerca linguistica e ricerca spirituale. I prodromi vanno fatti risalire addirittura al 2006, anno della conversione al cristianesimo di confessione evangelica e del conseguente abbandono dello pseudonimo Zak. Tuttavia, per i primi anni, i modi attraverso i quali far incontrare vocazione artistica e cammino di fede appaiono incerti, evidentemente ancora troppo connessi ai bisogni espressivi del passato, a prescindere da quanto l’artista stesso ne abbia a quel tempo coscienza. Si pensi ad un video del 2009 come Genesi, che dovrebbe rappresentare il primo di tutta una serie volta a rileggere le intere Sacre Scritture per mezzo della videoarte, progetto che invece non avrà alcun seguito. La svolta avviene, piuttosto, con Barricate (2011), sempre un video, ma paradossalmente un video che rappresenta la fine della centralità di questo medium nella ricerca di Manzi. Pensato originariamente come interpretazione dei fermenti di un anno caratterizzato da ingenti sollevazioni in tutto il mondo – il 2011 si apre con le primavere arabe, continua con il movimento degli Indignados in Spagna e infine vede emergere i movimenti Occupy -, ben presto appare ai suoi occhi dotato di ben altro significato: il fitto tessuto geometrico costruito per mimare le barricate diviene infatti lo stimolo per un ritorno ad una pittura rigorosamente non oggettiva, ove il segno ripetuto si muta in traccia di un sentire specificamente cristiano, sospeso tra scansione del tempo e pensabile, ma non ancora attingibile, eternità.(1) Da allora in poi pertanto – non un attimo prima e non un attimo dopo –Manzi assurge ad un piano di consapevolezza ben differente della strada da percorrere onde esprimere ciò che davvero vuole essere. Ciò non gli impedisce di abbandonarsi a svarioni – o meglio ad atti apparentemente tali finché si resta in un’ottica otto-novecentesca di sviluppo lineare. Penso ad una foto come Didramme (2013), ad una installazione come Scala profetica (2014), ad una azione come On sale (2016). Non di meno la coerenza del suo incedere, nonché l’urgenza e la profondità della sua poetica sono evidenti. Negli ultimi anni essa si precisa attraverso il concetto di cosmizzazione, desunto dalle teorie del celeberrimo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade, il quale lo adopera naturalmente per alludere ai miti e ai riti che i popoli di ogni parte del mondo elaborano per rispondere alle grandi domande connesse all’esistenza dell’uomo nell’universo, per ordinare – cosmizzare appunto – nella loro coscienza il caos che si presenta all’origine.(2) Anche in Manzi la cosmizzazione possiede una apparenza rituale. Le prime nascono nel 2016, in spazi esterni periferici e degradati. Piccoli segni che, mirando ad una sorta di risarcimento estetico – e qui si risale persino alla giovanile istanza socio-politica della sua arte -, mettono in opera una sottile conciliazione tra iconoclastia giudaico-protestante e bisogno di elaborare comunque una impronta visiva del sacro, benché lontana da ogni antropomorfismo. È lo stesso artista a suggerire un esempio che possa rendere più chiaro il livello in cui si andrebbero a collocare gli oggetti cosmizzati, richiamando il roveto ardente che parla a Mosè sul monte Oreb. Allora Dio si palesa e si nasconde insieme, giacché, se del roveto Dio si serve per comunicare al suo profeta e al suo popolo, certo Dio non ha le sembianze di un roveto (Es 3, 1-4, 17). Così un po’ tutte le opere che delineano il percorso di questa nuova personale si muovono su tale sottile, dicotomico equilibrio. Esse assumono svariate forme e sfumature, eppure paiono sostanzialmente riconducibili a due principali archetipi, quello del cerchio e quello del monte. Il cerchio rimanda al divino, in quanto figura perfetta con i suoi infiniti lati, in quanto richiamante la volta celeste dove il divino risiede, in quanto richiamante il disco solare con cui spesso il divino pressoché si identifica – l’Horus dell’enoteismo egizio, ad esempio -, ma lo spesso ed intricato linearismo che popola le superfici dei dipinti circolari, tutti intitolati Orbita, evoca una scrittura indecifrabile, e quindi insieme la traccia, anche molto accattivante, del sapere ed il suo carattere inattingibile. Non troppo diversamente funziona una costruzione in rame come Per aspera ad astra, che, pur nel suo conferire il titolo all’intero progetto, non sembra svelare più di quanto si imponga nella sua enigmaticità. Essa rimanda evidentemente ad oggetti sacri ben conosciuti, potrebbe somigliare persino ad un ostensorio, e cosa ci sarebbe del resto di più coerente con il discorso del manifestarsi nel nascondimento dell’ostia consacrata nella teologia cattolica? Ma accanto a questa lettura ne è possibile un’altra ancora - per certi versi in opposizione - che, radicalizzando il nascondimento fino a trasformarlo in assenza, ci offre la sensazione di avere davanti ai nostri occhi un’aureola senza figura sacra - Cristo, Madonna o santo che sia -, e questa sarebbe piuttosto una singolarissima affermazione visiva del principio iconoclasta del protestantesimo. Il monte, d’altra parte, nulla ha da invidiare al cerchio sul terreno dell’archetipico e dell’antichità, giacché gli uomini riconoscono il sacro nei monti, in quanto più vicini al cielo, da tempi remotissimi, ben prima dello svilupparsi della cultura giudaica. Nella forma della ziggurat mesopotamica è chiaramente adombrata tale concezione. Le divinità elleniche vivono sul monte Olimpo, come il monte Sion è la dimora terrestre del Dio di Israele. Ed ecco che ancora una volta qualcosa accorre ad offuscare la trasparenza del divino: se la nebbia che pervade la vetta del più alto monte della Grecia è proverbiale, tale fenomeno - oggi scientificamente spiegabilissimo ma non per questo ormai scevro di fascino – avvolge ampiamente anche quelle che compaiono nel video più lungo che Manzi abbia mai realizzato, E tu salirai sul monte. Più lungo è presto detto, giacché in oltre vent’anni di frequentazione, in certi periodi anche molto intensa, di questo medium egli non solo non lambisce mai un quoziente di minuti a doppia cifra, ma – salvo casi eccezionali – si attesta sulla media dei centoventi-centoottanta secondi. Parimenti l’enorme tela rettangolare Alture rappresenta ciò che promette nel titolo non più di quanto lo scomponga: possenti e curvilinei tratti scuri materializzano infatti davanti ai nostri occhi alture, o meglio icone essenziali, profondamente stilizzate, di alture – ravvivate dai colori tipici della poetica del sacro di Manzi, ovvero l’azzurro, il bianco e l’oro, ma stesi in campiture assolutamente piatte e dunque privi di ogni senso plastico – nello stesso momento in cui tali sembianze vengono contraddette da altri tratti differentemente orientati. L’opera che in termini più pregni, e persino commoventi, interpreta questo topos è però senz’altro Montagna, ove l’oro la fa da padrone assoluto: di tale colore è interamente ricoperto il declivio, con tanto di gradini che invitano l’uomo assetato di Dio ad una (im)possibile scalata. Troverà questi sulla cima un “acqua” che lo disseterà per sempre? Ancora una volta l’artista non può che ripiegare sul piano del simbolico, coronando il tutto con un elemento verticale ed appuntito che facilmente ricorda un corno – e la mente va alle corna come tipico attributo delle divinità mesopotamiche, ma anche alle corna-raggi di Mosè, reduce dall’incontro con Dio su di un altro monte, il Sinai (Es 34, 29). Infine, Braciere agisce come una sorta di sineddoche: pur sabotato nella sua coerenza iconoclasta dalla piccola copia alla buona del Putto con delfino dell’artista quattrocentesco Andrea del Verrocchio, posta al suo vertice – ma è un sabotaggio che, per certi versi, sembra replicare quello presente nelle Scritture stesse: chi non ricorda i due cherubini d’oro sulle estremità del coperchio dell’Arca dell’Alleanza? (Es 25, 18-20) -, esso riesce infatti a schiudere tutto l’immaginario del sacrificio che si officia sulla vetta del monte, congiungendo ai fumi naturali che normalmente si trovano ad alte quote i fumi artificiali provenienti dall’offerta elargita alla divinità. E qui finalmente il cerchio si chiude, divenendo ormai evidente innanzi tutto l’operazione di risignificazione in senso giudaico-cristiano di una frase latina e di conio assolutamente pagano – non è possibile identificare in un autore in particolare la prima formulazione di essa, ma una espressione molto simile si trova già nell’Eneide di Virgilio o nell’Ercole furente di Seneca. Non è un mistero, del resto, che tutta la Bibbia - sia l’Antico che il Nuovo Testamento - si fondi su tali operazioni di ripresa di forme proprie di mitologie extrabibliche per veicolare però nuovi contenuti, attitudine che il sociologo e teologo francese Jaques Ellul non esita a ricondurre al détournement situazionista.(3) «Attraverso le asperità sino alle stelle»: quante vicende o passaggi biblici potrebbero essere immediatamente associati a tale dinamica? Non compie forse una impresa simile il popolo ebraico attraversando il deserto per giungere alla Terra Promessa? Non sono forse le asperità che producono in loro la nostalgia dell’Egitto? E ancora, pensiamo a celebri parole del Gesù dei Vangeli canonici come: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9, 23-24) o «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno» (Lc 13, 24). Nella medesima direzione, benché con uno sguardo parzialmente retrospettivo, va il seguente passo deutero-paolino: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4, 7-8). Per quanto, dunque i tre Vangeli sinottici riferiscano dello squarciarsi del velo del Tempio (Mc 15, 38; Mt 27, 51, Lc 23, 45), il Gesù del Quarto Vangelo si proclami Via, Verità e Vita (Gv 14, 6), Paolo parli di Cristo come immagine del Dio invisibile (Col 1, 15) e il Gesù dell’Apocalisse proclami se stesso per ben tre volte l'alfa e l'omega (Ap 1, 8; 21, 6; 22, 13), il percorso del cristiano sulla Terra non può che restare sospeso tra la certezza e il dubbio, tra la gioia e l’ansia, tra la sazietà e la fame. La venuta di Cristo come compimento della Rivelazione non va confusa con la fine del cammino dell’uomo sulla Terra; semmai implica un nuovo inizio di esso. Lo stesso formidabile bagliore della Buona Novella, finché si è sulla Terra, non è soltanto una sorgente di luce estatica, ma come una torcia elargita in dono per affrontare le asperità in virtù delle quali si raggiungeranno gli astri, come imparano a loro spese Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor – ancora un monte! – assistendo alla prodigiosa Trasfigurazione del loro Maestro (Mc 9, 2-8; Mt 17, 1-8; Lc 9, 28-36). «Ha ragione in questo senso quel che dice un nostro poeta: A ciascuna generazione spetta scrivere il suo Vangelo e l’ultimo che si è scritto è sempre il più completo», si legge nel sorprendente ed originalissimo romanzo storico di Mario Pomilio, «e ha ragione perfino quel vecchio mito secondo il quale la Parola non si è ancora manifestata interamente e viviamo in perpetua attesa d’un quinto evangelo che si sta scrivendo».(4) 1) Per una analisi più approfondita degli snodi del percorso di Zak Manzi e poi di Salvatore Manzi fino al 2014 cfr. S. Taccone (a cura di), Salvatore Manzi. EXZAK, Phoebus edizioni, Casalnuovo di Napoli, 2014. 2) Cfr. M. Eliade, Der Heilige und das Profane, 1956, trad. it. Il sacro e il profano, Boringhieri Editore, Torino, 1967. 3) J. Ellul, La Subversion du Christianisme, 1984, trad. it. La sovversione del cristianesimo, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona, 2012, pp. 30-31. 4) M. Pomilio, Il quinto evangelio, Rusconi, Milano, 1975, p. 134. foto di Peppe Maisto |
ALTURE 2x6 metri acrilico su tela 2023, Sabato Angiero Arte, Salvatore Manzi, Stefano Taccone, Peppe Maisto Alture 2x6 metri acrilico su tela mostra personale "PER ASPERA AD ASTRA" di Salvatore Manzi a cura di Stefano Taccone foto di Peppe Maisto galleria Sabato Angiero Arte
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