SNÒDO 2020a cura di Valentina Apicerni
Quando il riversarsi delle pratiche artistiche nei luoghi non deputati alle mostre -in maniera ufficiale o non autorizzata- e la loro ibridazione o contestazione delle strategie di marketing, sono operazioni già consolidate nella storia, fare un intervento d’arte in un contesto urbano utilizzando strutture pubblicitarie, non è un atto provocatorio ma il proseguire una necessità: basta vincoli di sistema. Se poi tali operazioni hanno trovato nel tempo maggior responsabilità d’essere nelle zone periferiche e nelle province, fuori dal traffico visivo delle città, è perché è lì che molte volte essi acquisiscono la nomea quanto la legittimità dei gesti di opposizione. Snòdo è stato concepito alle porte di Saviano, nella biforcazione stradale che ospita il mercato comunale settimanale, accerchiato da quattordici cartelloni pubblicitari solitamente in affitto, come usuale, alle firme dei marchi commerciali o dei candidati politici durante le campagne elettorali. Snòdo è il tentativo di rendere più elastici, snodare i margini degli schemi abituali attraverso il contributo di quattordici artisti chiamati ad inserirsi nella struttura vivente di un contesto locale e del suo paesaggio. Una par condicio che non interessi esclusivamente la visibilità politico-commerciale ma il diritto ad una parità di accesso alla comunicazione, soprattutto per una cultura non propagandistica. Infatti, essendo lo spazio urbano entropico ed effimero per sua stessa natura, anche questi gesti partecipano a tracciarne possibili mutazioni, se è vero che “l’artista è sempre impegnato a scrivere una minuziosa storia del futuro”. Quando c’è una storia, c’è sempre un prima e un dopo. Prima che i manifesti pubblicitari divenissero arte di propaganda politica ed arma di potere dei partiti, tra i loro valori ed ideologie, erano opera di officine grafiche e di artisti alla Toulouse-Lautrec. Dalle strade di Parigi le nascenti metropoli illustravano sé stesse con réclame cinematografici, immagini di cabaret notturni e di prodotti da Bon Marché, da Grandi Magazzini. Dopo che lo spot sulle reti televisive mise in ombra il sistema creativo delle affissioni, i cartelloni pubblici già popolavano i bordi delle corsie per accompagnare con slogan da consumo il viaggio in Ford di chi transitava dai territori rurali alle città. Totem stradali innalzati a simulacri dei desideri e ormai assorbiti nel nostro immaginario: il paesaggio invisibile e senza identità degli incroci, delle strade urbane e delle periferie. Questi totem, reperti di un’archeologia postindustriale, come i “Monumenti di Paissac” disegnano un panorama zero in cui le opere tendono alla rovina ancora prima di essere costruite ed “invece di provocare in noi il ricordo del passato, sembrano volerci far dimenticare il futuro”. Ma è nel rimosso delle città, nel negativo fotografico della musealizzazione della cultura che riesce a sopravvivere la biodiversità e il rifiuto è un altrove ancora possibile. Derive entropiche per eccellenza sono i nonluoghi, dai campi profughi ai passaggi necessari al movimento, come le stazioni, le reti stradali e gli svincoli. Snòdo, termine di uso frequente, ma improprio, per svincolo, è un’operazione site-specific che all’arte pubblica ruba solo il pretesto per appropriarsi di uno spazio comune. Snodare come sciogliere, liberare dai nodi, è un invito a slegarci dalla trama delle narrazioni già conosciute, e dare presenza a zone di transizione. Questi luoghi, nella loro identità anarchica, hanno la prerogativa di essere astorici. E quando non c’è una storia, il prima e il dopo convergono nel sempre presente, l’oggi dei Passages in cui “uscire di casa come se si giungesse da un luogo lontano; scoprire il mondo in cui già si vive; cominciare la giornata come se si sbarcasse da una nave proveniente da Singapore” o imbarcarsi in una odissea suburbana. |
ANIELLO BARONE Abitante della terra L’uomo è un essere “mancante”, disincantato, ambiguo. L’animale cercante ha smesso di ricercare instancabilmente, intrepidamente, su tutti i piani, in tutte le direzioni; l’uomo ha smesso di cercare, di voler sapere. La dimensione storica, la coscienza delle nostre origini, del cammino - esaltante e turpe - attraverso il quale siamo diventati quello che siamo, si configura come una componente ineliminabile di noi e del nostro presente. Dimenticare il passato vuol dire dimenticar-si. E poi il futuro, una ricerca verso il futuro. Una parte cospicua della cultura contemporanea ha scelto la pratica della non-ricerca, del non-pensiero – e meglio sarebbe dire della “in-coscienza”. Alla radice di questa posizione può esservi la tesi – del tutto infondata – che, tanto, il futuro sarà sostanzialmente uguale al presente. Quindi il futuro viene vissuto come una sorte di corpo estraneo, del quale non si vuole aver cura invece al contrario, del futuro si abbia cura. Che lo si “cerchi”: che se ne colgono, quanto più è possibile, sia le premesse sia le minacce. Il futuro è la proiezione dei nostri desideri e delle nostre speranze. Invece di indulgere in un vacuo autocompiacimento, pare più serio un agire moralmente attraverso “anticorpi” di cui ho accennato prima: la prima, è la preservazione della memoria del passato: del passato dell’uomo in quanto essere storico; l’altra è la salvaguardia della propensione verso il futuro: del “principio speranza”. La consapevolezza e la coscienza dell’esistenza dell’invisibile, che significa, molto laicamente, la coscienza dell’esistenza delle cose che ci sono anche se non si vedono per prevenire mali e minacce per condurre una vita umana. Ri-cercare, la conoscenza, le in-certezze devono essere, quindi, gli elementi accompagnatori dell’uomo, nella sua missione esplorativa in un rapporto “nuovo” con l’ambiente, la natura. Un diverso rapporto, una nuova armonia ecologica con la natura. La “volontà di sapere”, di sapere per evitare errori e catastrofi inimmaginabili, trova un’area di impegno tanto più ardua quanto improcrastinabile. |
ANTONELLO SCOTTI Traumtrauma ∞ L’umanità traghetta la propria genia attraverso sogni e traumi, ferite e suture. Sono flussi continui i quali da tempi remoti si spostano, si diramano passando per ponti, gangli e snòdi. La storia, come le singole storie, sono accumuli e sottrazioni, nascondimenti e svelamenti, a volte intenzionali, altre volte involontari. Sia nell’uno che nell’altro processo, un oggetto, un gesto, un odore, una parola, un comportamento, una immagine qualsiasi, tornano a galla da uno spazio remoto, così remoto che era lì sotto i tuoi occhi in attesa di mostrarsi. I salti spaziotemporali di un evento, di un’opera, nel senso che è stata fatta, costruita, assemblata, sono insiti nel suo divenire davanti agli occhi di chi studia l’immagine-opera stessa. L’immagine-opera deriva dalla vita, dal vissuto, non per forza eccezionale, di ogni individuo che intenta di vivere-vedere anche e soprattutto nel quotidiano, del proprio e dell’altrui essere; ovvero agguantare i termini dialettici insiti nelle sue cose da fare: fare pragmatico, fare poetico. In questa drammatica dicotomia, in questa ferita dell’unità della visione, l’uomo-poeta, si dibatte tra la vita e la sopravvivenza. I segni visivi non sono stati né cercati, né trovati, essendo carne della propria carne e simulacro di memoria salvata. |
CESARE ACCETTA Lo snodo indica in sé un'articolazione, la previsione di un altrove in duplice direzione che nel punto preciso in cui è fissato non si manifesta, ma lascia presupporre, presumere, ipotizzare, o semplicemente immaginare. E di qui appunto l'ambiguità del termine e la particolare potenzialità allusiva in esso contenuta, che apparentemente esiguo si fa punto, luogo, occasione per divagazioni d'indefinita portata. |
CRIRO VITALE EUROPA - 2020 Quando iniziamo a costruire un edificio, assistiamo alla nascita di un nuovo spazio destinato ad accoglierci e, allo stesso tempo, riusciamo a intravedere cosa sarà di quella struttura quando avrà compiuto il suo ciclo di vita, quando non resteranno altro che macerie. L’Europa è una casa, noi possiamo continuare a costruirla per renderla più giusta, più unita, più solidale. Oppure, possiamo abbandonarla al suo destino e realizzare il più grande incompiuto della storia. Tra le tante vie che giungono in Europa, vi sono quelle del mare, battute dalle donne e dagli uomini che i sogni li guardano da lontano senza riuscire mai a toccarli. Se negli occhi rivolti verso la terra ferma di chi sprofonda nell’immensità degli abissi si fissasse un’ultima immagine, questa sarebbe impalpabile, evanescente come i contorni delle nostre esistenze cancellati dal desiderio morboso dell’inutilità. |
FLAVIANA FRASCOGNA Lanzarote Per l’intervento ”Snòdo” ho cercato di inserirmi nel contesto locale e nel suo paesaggio proponendo la visione di un uomo immerso in uno scenario disumano, che sembra sottolineare il doloroso distacco fra uomo e natura. Silenzio, rocce, piante selvatiche in un clima desertico, pochi campi coltivati, il mare. Un senso di desolazione e d’angoscia pervade tutto il percorso iconografico. Ho come l’impressione di entrare in diretto contatto con un nulla pesante ed oscuro. Come l’uomo possa riuscire ad addomesticare il pericolo del rischio è un tema che è parte della mia ricerca visiva. Ho tentato di indagare ed approfondire il rapporto fra l’uomo e la natura che lo circonda nonché con lo spazio abitato nei miei precedenti lavori “Evento Massimo Atteso” che indaga la Zona Rossa intorno al vulcano Vesuvio, un'area ad alto rischio sismico che in caso di eruzione rischia di essere invasa da colate laviche, abitata da 700.000 persone ed il progetto “Route 1”, sull'autostrada principale che attraversa l'Islanda, isola di ghiaccio e fuoco, per 1300 km e che solo dal 1974 collega tutte le sue regioni. |
GIUSEPPE CACCAVALE Giù al Monte Somma a Saviano, in uno snodo di strade, su uno schermo di carta due ragazzi lottano seminudi. E’ una lotta tra amici tra vigneti e alberi a frutto. Intorno c’è aria colorata, linee di matite che hanno tracciato itinerari di un paesaggio umano da incastonare in un paesaggio naturale. Potrei dire in un paesaggio devastato come quello della periferia napoletana, direi una banalità. Ricordo da bambino “o’ summaiuolo” che proprio da questi luoghi, con il suo carro trainato da un cavallo, veniva ad Afragola con i raccolti del Monte Somma. E’ da quel carro che ho assaporato il primo fico, è da quel carro che ho assaporato il primo sorbo. Il mondo adulto non potrà mai annientare la forza del ricordo sorgivo della nostra infanzia. La nostra infanzia lotterà sempre di più contro la peste adulta fatta di mani avide che hanno anestetizzato dalla vita il sentimento di fiducia tra di noi. Uno schermo di carta ad acqua pazza colorata, fatto di lotta amichevole che stringe la mano agli altri schermi di carta in uno snodo… Fiducia sii di nuovo tra di noi… Svegliati, apri gli occhi. |
NICOLA ZUCARO Il senso è riposto e deviato, quasi nullo, quindi direiuniversale. L’immagine si rifiuta ad ogni interpretazione univoca che ognuno vi si specchi in essa, che ognuno scopra il suo boia-. L’obiettivo non è la coerenza ma porre delle questioni. Il tentativo è quello di liberare l’oppresso dall’oppressore. [buio] È un colpo di teatro. Tra quotidianità e enigma vi è “rappresentato” un corpo artistico muto e spettrale che si dà come mistero. Un corpo come luogo del riscatto messo in scena nella sua emarginazione, nel suo isolamento. Reale e irreale si mescolano. Si indaga lo spazio labirintico del sé, tempo o prigione dove si evocano visioni perturbanti. Un’innominabile figura contro è in cerca di complici incompresi che attualizzino la “messinscena” in corso nel grande formato dell’immagine fotografica. Disgressione di tempo e spazio che dura; teatro diretto che mi incorpora e che tiene viva l’assurdità per non morire impiccato e senza voce sul patibolo del controllo e delle realtà consigliate e imposte. Messa in scena, si, ma abolita perché ormai realtà. Allora, realtà messa in realtà come scena. Forma aperta e chiusa. Patria sconosciuta dove cessa la colpevolezza e la proibizione. [buio] [brusìo di voci] |
ODILON COUTAREL Baie vitrée, 2020 Aperçu derrière la vitre d’un non-lieu, une station de transports en communs quelconque, le Vésuve s’étends comme un mirage au dessus de la baie. Qu’est-ce qui départage la vue anonyme, sans intérêt, du paysage perçu comme « beau » ? Le tracé du décor au premier plan tient lieu de cadre à cette vue, qui, sans lui pourrait tenir lieu de carte postale. derrière la vitre d’un non-lieu, une station de transports en communs quelconque, le Vésuve s’étends comme un mirage au dessus de la baie. Qu’est-ce qui départage la vue anonyme, sans intérêt, du paysage perçu comme « beau » ? Le tracé du décor au premier plan tient lieu de cadre à cette vue, qui, sans lui pourrait tenir lieu de carte postale. |
OLIVIER MENANTEAU L'imperialismo sfrutta intensamente il bisogno di possesso di uomini e donne, e qui troviamo il fondamento del capitalismo. Thomas Hobbes dà al Leviatano una forma concepita come un movimento verso i piaceri individuali "come un trasferimento dell'incanto della natura al capitale" (Marshall Sahling). Ma questa ricerca della felicità ci rende cronicamente infelici! Per l'umanità, il prezzo da pagare per questa corsa non è più la "tristezza del peccato", ma l'arrivo di condizioni meteorologiche estreme o l'epidemia che sta colpendo il pianeta ... Olivier Menanteau sviluppa progetti che guardano alle transazioni nel mondo sociale, politico e dei media, prestando particolare attenzione al linguaggio del corpo di coloro che sono coinvolti nella vita pubblica. Egli applica loro, nelle sue parole, "metodi relativi all'osservazione partecipativa". Egli è quindi coinvolto nell'analisi dei movimenti e dei gesti dei soggetti osservati. Queste opere offrono una riflessione sulla complessità del corpo, visto come uno spazio duale, quello del linguaggio, ma anche quello della cultura. L'imperialismo sfrutta intensamente il bisogno di possesso di uomini e donne, e qui troviamo il fondamento del capitalismo. Thomas Hobbes dà al Leviatano una forma concepita come un movimento verso i piaceri individuali "come un trasferimento dell'incanto della natura al capitale" (Marshall Sahling). Ma questa ricerca della felicità ci rende cronicamente infelici! Per l'umanità, il prezzo da pagare per questa corsa non è più la "tristezza del peccato", ma l'arrivo di condizioni meteorologiche estreme o l'epidemia che sta colpendo il pianeta ... Olivier Menanteau sviluppa progetti che guardano alle transazioni nel mondo sociale, politico e dei media, prestando particolare attenzione al linguaggio del corpo di coloro che sono coinvolti nella vita pubblica. Egli applica loro, nelle sue parole, "metodi relativi all'osservazione partecipativa". Egli è quindi coinvolto nell'analisi dei movimenti e dei gesti dei soggetti osservati. Queste opere offrono una riflessione sulla complessità del corpo, visto come uno spazio duale, quello del linguaggio, ma anche quello della cultura. |
PIER PAOLO PATTI Fuck white supremacy! Se l’arte, con la sua potenza espressiva, conserva ancora il proprio ruolo sociale, oggi ha l’obbligo di usare parole di verità con il coraggio necessario. Il manifesto “Fuck white supremacy!” nasce da questa convinzione: contro ilpopulismo e i nazionalismi che avanzano grazie alle politiche di Trump, Bolsonaro, Salvini, Orban... L’artista ha il dovere di urlare con parole chiare il proprio dissenso, di farsi portavoce di chi non ha la possibilità di esprimersi in libertà. L’azione di arte urbana, in questo caso, diventa una potente arma per condividere un contropensiero diffuso e spesso represso da un sistema che divora fake news e sloganxenofobi con troppa semplicità. Il cartellone pubblicitario, in un area mercatale ad alta frequentazione popolare, è il mezzo perfetto per un’operazione come questa e l’impostazione visiva spiccatamente “pubblicitaria” utilizzata per veicolare contenuti anti-imperialisti, risulta calzante da un punto di vista sia stilistico che concettuale. Fa nascere un cortocircuito tra ciò che siamo abituati a cercare in un messaggio pubblicitario e un contenuto diverso, di “promozione ideologica”. Il manifesto in questione assomiglia visivamente a una pubblicità, è invece un attacco alle politiche razziste di Trump per il tramite dell’arte, che così ritorna a ricoprire il ruolo critico che più gli si addice. La potenza dell’immagine non lascia nessuno spazio a interpretazioni diverse o più “light”: è limpido, è semplice ed ha sfacciatamente un sapore di giustizia sociale. |
PINO MUSI BORDER SOUNDSCAPE Cosa mi intriga, mi appassiona, nel praticare la fotografia? Al netto della ricerca di contenuti stimolanti e di confronti interdisciplinari, credo che nel mio immaginario si siano sedimentate, nel tempo, una quantità di variabili di "griglie", frutto del perseverare dello sguardo sul mondo, in costante condizione di "frame", di riquadro, di cornice. Il gioco, serio, è, per me, quello di riprendere a piacimento queste griglie, ma evitando che diventino condizione di esercizio coercitivo, scolastico, pericolosamente replicabile all'infinito. Un operare che richiede il non subire, quindi, l'imprigionamento insito nella condizione stessa di "ordine" che la griglia trattiene, ma, senza vezzo eccentrico (che è scelta facile e distraente) provare a sperimentare altri intrecci di moduli, dilatazioni, aperture, incastri, partizioni. Per me la bellezza dell'atto fotografico equivale alla bellezza di una geometria che si rigenera all'infinito. |
SALVATORE MANZI Monte cosmico, 2020 Montagna cosmica è l'espressione attraverso la quale gli storici delle religioni designano quelle montagne, spesso mitiche, che nelle religioni e nelle loro rispettive mitologie vanno ad assumere il ruolo di Axis Mundi, centro e spesso pilastro del mondo e luogo di unione del Cielo con la Terra, e talvolta anche con gli inferi, quindi luogo della sua stabilità e da cui si dipartono le direzioni cardinali. Manzi disegna la grande montagna (triangolo) in mezzo ad altre piccole alture (triangoli) attraverso assi di legno dipinte di bianco applicate allo scheletro di un tabellone pubblicitario. Lo spazio commerciale diventa spazio spirituale, il Monte cosmico ridisegna il paesaggio sovrapponendosi nell’immaginario alla montagna che incombe sulla provincia napoletana: il vulcano Vesuvio. In qualsiasi paesaggio le montagne sono grandi presenze e quasi tutte le popolazioni del mondo le hanno rivestite di sacro. Le montagne sono cariche di simboli e dunque sollecitano facilmente gli “archetipi” del nostro io profondo. La «Montagna Sacra» si trova al centro della cosmologia e della geografia sacra di molte forme religiose, dalle più arcaiche tradizioni sciamaniche, dalla Grecia antica all’Islam arabo-persiano, dall’India hindu all’Iran zoroastriano, dalla Cina taoista al Giappone scintoista e buddhista, le culture amerinde dell’America settentrionale. E per unire con le grandi religioni monoteiste, la “Montagna” rappresenta l’asse cosmico, il posto sacro dei sacrifici e delle rivelazioni. La parola sacro deriva dalla parola latina sacer. Il suo significato in latino è ambivalente indica ciò che è consacrato agli dei ma anche ciò che suscita orrore. Il monte così può significare ascesi, distacco dal materiale, e simboleggiare la tensione dell’uomo verso la divinità che abita i cieli. Per la religione ebraica e la cristiana il monte è sacro perché in quel luogo, dove si immagina più vicino il creato al Creatore: nella Bibbia il Monte, è sovente un luogo si svolgono avvenimenti speciali, rivelatori, è luogo di particolare vicinanza di Dio |
TIMOTHEE CHALAZONITIS Questa immagine è una messa in scena da un oggetto che è un emblema nel nostro tempo, ironicamente prendendo i codici di comunicazione, lo spettatore mette in discussione la sua relazione quotidiana con questo oggetto. Piaccia o no, gli smartphone hanno cambiato il nostro rapporto con il mondo. Ciò ha permesso di scambiare contenuti immateriali e accedere a molti servizi in pochissimo tempo. La corsa frenetica contro il tempo che la nostra epoca porta difficilmente ci lascia il tempo di ripensarci, di ridefinirla. L'immagine mette in discussione indirettamente la nostra eredità e quindi ciò che passeremo alle generazioni successive. Potremmo chiederci se questo oggetto non soffoca i nostri desideri profondi? |