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SULLA LINEA DI CONFINE* - Nicola Zucaro

a cura di Rosa Catalano

Spegnere luci e riflettori, lasciare ogni dispositivo, spogliarsi dei propri indumenti e delle idee preconfezionate, in attesa che si apra il sipario.

- Attesa –

Il palco è vuoto, avvolto nell'oscurità. Il percorso inizia dall'ombra, dalla profondità del nero, dall'odore del catrame; da qui l'ingresso nella complessità di un pensiero che si cela e si esprime contemporaneamente, si nega e si manifesta, nelle azioni che prendono vita e dopo pochi istanti, la perdono, per restituirsi come immagine. È così che sono entrata nel lavoro di Nicola Zucaro, come si entra in un teatro, con la curiosità timorosa di chi si aspetta che ogni cosa possa accadere. Non vestendo l'abito della critica, non da artista, non da osservatrice esperta, ma come una spettatrice che non ha paura di perdersi e di esplorare. E si diventa subito spettatori, anche dei vuoti e delle pause, di una sequenza di macchie, uno specchio da cui farsi risucchiare; spettatori e spettatrici di un processo creativo che si mostra vulnerabile e mutevole. Non è prevista una zona di comfort; la stessa vulnerabilità a cui l'artista è offerto, è riservata anche al pubblico. Il lavoro di Nicola Zucaro si “presta” nel doppio senso che questa parola può esprimere: prestarsi all'altro, con il suo tessuto malleabile, e prestarsi a divenire altro. È necessario uscire da una forma e provare a prendere parte con lo sguardo, accedendo ad un'intimità già condivisa, una trasfigurazione di corpi enigmatici, in cui la nudità e gli elementi presenti affrontano temi di importanza primaria: il dolore, le ferite, la sofferenza, la trasgressione, la salvezza. Il discorso che Nicola cerca di portare avanti, vuole semplicemente raccontare una condizione esistenziale, individuale e/o collettiva: la vita e, probabilmente, la sua ferita originaria. L'immagine dell'atto in cui l'artista porta il peso di una scala di legno sulle spalle, e di nuovo il legno delle aste poste perpendicolarmente fra le scapole e i dorsali, spinti in una tensione dagli avambracci, richiamano immediatamente la simbologia cristiana della croce, il sacrificio di Colui che muore per espiare i peccati dell'umanità. Ancora, la garza con cui l'artistasi avvolge il volto, coprendolo, ora con un tessuto, poi con le mani, nega sempre una parte di sé e del suo corpo - quella più incline alla menzogna - ponendo l'attenzione su quei frammenti scoperti, non protetti, preda di ulteriori ferite, in condizioni di estrema fragilità e “miseria”. Quel corpo scarno, consunto, sottile, incarna una ricerca di essenzialità, un desiderio di povertà materiale in favore di una ricchezza spirituale, come egli stesso esprime: “una ricerca del vero che cerca di farsi spazio fra aporie, fratture, bellezze inattuali e sotterranee, realtà che nascono dal basso”. È da questo punto, dal suolo e dalla terra, che l'artista ci chiama e ci interroga. Ci invita a lasciare tutto, a tornare bambini; ritornare alla propria nudità per portare, insieme a lui, il peso di quella scala e camminare - per un tempo non definito - su quella linea di confine. Intraprendere questo viaggio non dà certezze; non vi è una meta, non si prevedono mappe o indicazioni. È piuttosto un invito ad abitare l'assurdo, attraversare il bosco, saltando da un punto all'altro della sala, in presenza di oggetti apparentemente privi di corrispondenza. Tanto le immagini presenti nella mostra, quanto gli oggetti o il testo recitato, sembrano emergere da uno stato di semi-coscienza dell'autore; l'atmosfera che riescono a creare va oltre il mezzo utilizzato. La fotografia, infatti, ha in sé il limite della sospensione mortuaria e con l'immobilità che la contraddistingue, contrasta quel movimento intrinseco e concettuale che le opere di Nicola trasmettono. Ma la fotografia è fatta anche e soprattutto di luce. E la luce, protagonista quanto l'oscurità, scrive una scena che ha - più che altro - i connotati di un atto performativo irripetibile, immanente, improvvisato. Quell'atto che di volta in volta prende forma, sul palcoscenico della vita quotidiana dell'artista, nel suo essere incontrollabile e mutevole, segno di qualcosa che è stato e che ora non è più, la cui traccia si rende visibile attraverso lo scatto, appunto, che crea immagini di forte contrasto visivo. Così, il bianco puro della garza, quello delicato delle pagine di un libro, l'aspetto opaco e rareffato delle strisce sull'asfalto e il vuoto alle pareti, rompono il buio e aumentano lo spazio percettivo, evocando frammenti di semplicità e d'innocenza, candore ed eleganza. Chi volesse, dunque, immergersi nella profondità del lavoro, dell'arte e della vita di Nicola Zucaro, sia munito di umiltà e pazienza, per poter percepire la verità dell'esperienza. Una verità che si mostra sporca e spoglia, come un corpo senza organi, che fa spazio all'altro, sottraendosi, per mettere in discussione la categoriastessa di persona, di identità, traducendosi in una sorta di spirito -virtualità. Lo fa mediante la legge dell'amore, che non si esprime nella corsa affannata per arrivare primi, piuttosto, nella speranza silenziosa di essere fra gli ultimi.



* Nota di Veronica Iuliano

Dimorare sulla linea di confine vuol dire accettare l´indefinitezza di un luogo “senza luogo”. E se si fa riferimento a due attitudini dell´uomo, dimorare e creare confini, é solo per poterne sabotare le regole costitutive, per far cadere il velo di autodifesa, di identitá e di potere celate dietro queste due parole. Cosí Nicola sperimenta e abita, senza privilegiarne alcuna, le numerose pratiche, designando quella che potremmo chiamare un´”anti-disciplina”, il cui termine fa riferimento sia alla dimensione artistica quanto a quella esistenziale, e il cui prefisso “anti” non sta forzatamente ad indicare qualcosa “contro”, la negazione assoluta di una qualsiasi legge, ma semplicemente qualcosa che si pone prima, ante, di essa, che gli permette di vagare “tra le parti” di questa linea di confine che diviene spazio aperto, plurale, dialogico; che gli permette di occupare questo spazio di contraddizione costante, facendolo diventare ogni volta il punto di partenza di una domanda continua a cui, con etica e responsabilitá, non smette di cercare risposta, nonostante ne riconosca l´impossibilitá di venirne a capo. O potremmo parlare anche di un´ “antipratica”, dove il termine pratica sta ad indicare proprio <<quell´avere a che far>>,<<quell´aver da fare>>, con le cose, tramite le cose, e dove, ancora una volta, é il prefisso anti, la negazione, a togliere il capitalismo e generare un sentimento di generositá e gratitudine a questo fare. Possibilitá nell´impossibilitá: negazione come sospensione: sospensione come atto etico e responsabile: interrogazione senza pretesa: concordanza fra dubbio e fiducia: “fede”. Chi dimora sulla linea di confine, dunque, é piú prossimo alla vita di quanto si possa pensare, nonostante questa prossimitá sia il risultato di una messa a distanza di ogni tipo di certezza rassicurante. Ecco, forse é questo l´unico modo per dialogare con le opere di Nicola; o, forse, questo é l´unico modo che Nicola conosce; o meglio, forse é l´unico modo possibile, per non delegare all´opera il solo compito di rappresentare “il giá pensato”, di porre la condizione per chi le osserva di sentirsi parte integrante di un processo sempre in atto. E allora la linea di confine, ormai opera, diviene <<oggetto sociale>>, <<che pur separando, non puó fare a meno di sostenere il terreno del confronto, dello scambio>>. E in questo pullulare di voci, l´opera e l´rtista fanno uno sforzo: contenerle tutte, sottraendosi. E allora l´arte diviene strumento di indagine e sperimentazione di un linguaggio altro che destruttura e disabilita, che abbandona per un attimo il suo ruolo chiarificatore, per lasciar emergere quel sentimento tragico ma ricco di vitalitá di un´esistenza ai margini, di un ordinario cosí potente da trasformarsi in “resistenza”.


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