THE END HAS NO END - Marco RossiA volte per provare ad accogliere la fine può essere utile tornare alle prime immagini. Sono seduto accanto al letto dove riposa lo zio. Dicono saranno gli ultimi giorni, segnati da un cadenzare affannoso e profondo del respiro. Dietro di me mio fratello si muove davanti alla finestra di luce creando ombre giganti. Gli occhi sgranati dello zio seguono lenti l'ondeggiare dell'ombra. C'è paura.
Torno bambino. Ricordo la paura del buio e delle ombre che vibrano se la luce viene dal consumarsi della candela. È lì che inizi a vedere i mostri e a farci i conti da solo. La paura si placa solo nell'abbraccio della mamma a dirti che è lì accanto a te. Allungo la mano cercando quella dello zio. Stringo. Gli occhi si spostano dall'ombra e arrivano alle mani. Il respiro si fa lento. Il volto disteso. Esporrò dei miei lavori in una galleria a Napoli. La mostra inaugura nei giorni di Pasqua e ha come tema il morire mi dice Marco in una telefonata recente. Immagino di entrare nella stanza espositiva come fosse un sepolcro con le narrazioni di Marco a parete, in linea o in apparente installazione casuale poco importa perché in ogni caso saprà ricostruire l'immensa finitudine della vita di ogni uomo e ogni donna. Può essere simile a una white room, una wunderkammer, la cella di un carcere, la stanza di un ospedale, un atelier o qualsiasi luogo dove si dipanano le storie quotidiane dell'uomo. Marco è in grado di abitarle tutte con reciproco rispetto, delicatezza e discrezione. Dalla porta, forse unica apertura di quello spazio, entrerà ognuno di noi e si troverà di fronte agli uomini di Rossi a parete, con la stessa forza e talvolta anche funzione antropologica e atavica dei segni rupestri all'interno delle caverne. In quella stanza Marco ci spinge a guardare in faccia alle paure, alle solitudini, alle ansie, alle fobie, alle sofferenze, alle cadute, ai fallimenti, alle manie, alle sconfitte, alla morte. Marco non ci lascia dormienti, quieti, appagati, consolati. E qui abbiamo due possibilità. Possiamo girarci, cercare la stessa porta da cui siamo entrati, uscire, tornare alla luce e convincerci sia stato tutto un incubo. Ci verrà facile. Siamo stati ben educati a questa modalità di difesa. Oppure possiamo fermarci nella stanza. Ascoltiamo il respiro fatto più corto e veloce, il cuore accelerato, le emozioni fastidiose che si gonfiano. Proviamo lentamente a scoprire il racconto delle opere. Esse aprono la nostra storia. Lasciamo riaffiorare ricordi, ferite, delusioni, paure, incertezze. La ricerca di Marco ci concede proprio questo essere, poterci sentire e mostrare fragili, vulnerabili. Di fronte a quegli uomini soli sentiamo la mancanza, spazio che non potrà essere colmato, ma abitato dall'altro abilitando la nascita del desiderio di relazione. Rimanendo in questa stanza, attraversando queste emozioni, sentendo questa dannata mancanza, sperimentando il dolore della morte, scopriamo di poter essere madre per il bimbo che ha paura o la mano che stringe la mano a chi ci sta lasciando. Damiano Fustinoni |