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TUTTE LE PROMESSE MANCATE - Gianfranco D'Alonzo Garibaldi

a cura di EMMA ERCOLI


Per orientarsi nel labirinto di Tutte le promesse mancate ed entrare in consonanza con il vasto orizzonte creativo di Gianfranco D’Alonzo Garibaldi è bene iniziare il percorso della mostra con I Giochi d’Anime, un video che riprende uno dei più antichi giochi dei bambini, quello del cerchio che
viene fatto ruotare con una bacchetta. Il video, infatti, ci introduce in un territorio in cui si condensano profonde tensioni emotive, mettendoci in contatto con il mondo interiore dell’artista e con l’universo dei suoi ricordi d’infanzia.

I lavori in mostra sono stati realizzati nel corso degli anni usando tecniche tradizionali le più varie: dalla pittura ad olio a quella a cera calda, alla scultura, l’installazione, sempre nell’ambito di un’esperienza inclusiva, senza mai utilizzare un medium come pietra angolare di una specificità. In alcuni casi si tratta di opere ideate per un progetto a cui l’artista in seguito ha rinunciato.

Dopo l’esperienza di Spiritual Exercises, opera realizzata su più piattaforme mediali, i lavori in mostra potrebbero ad un primo sguardo far pensare a delle forme chiuse che tentano timidamente di uscire da un silenzioso backstage. In realtà l’artista ha sempre orientato i suoi progetti verso pratiche partecipative e anche in questo caso si percepisce subito la tonalità emotiva che anima lo spazio, la sua densità, il reticolo di richiami tra gli oggetti che lo abitano e tra questi e il visitatore.
Al gallerista Sabato Angiero è stato affidato l’allestimento. Il suo primo incontro con le opere e la scelta della loro collocazione hanno attivato un’interazione forte, una energeya che si è trasformata in evento: lo stesso percorso espositivo è diventato opera.

Il passaggio attraverso i lavori in mostra non è rettilineo, regolare, prevedibile. Evoca piuttosto una via dei canti, un sentiero che si percorre seguendo richiami, echi lontani che indicano tracce, impronte, trame luminose.
Ogni opera esposta non è mai una strategia chiusa ma un dispositivo che genera connessione, sintesi di relazioni possibili, strumento carico di stratificazione di segni.


Realizzati in diversi momenti, i lavori vengono rimessi ora in gioco disegnando relazioni inedite tra soggetto e oggetto. Tipiche le “pitture” degli anni Novanta lavorate con cera calda su tela di lino, o come trame a rilievo che disegnano griglie, fitti reticoli, quasi un tentativo di contenere un materiale vissuto come magma difficilmente controllabile.

Sulla parete centrale della galleria un lavoro sospeso a quasi tre metri di altezza, un quadrato realizzato in metallo dorato, evoca l’aureola dei santi. In questo caso si tratta di un Nimbo, un’aureola di forma quadrata anziché circolare. L’opera richiama l’alone luminoso dei primi asceti che hanno cercato la preghiera assoluta, il dialogo diretto dell’uomo con Dio. Il Nimbo ricorda la solitudine estrema degli anacoreti del cristianesimo bizantino, ma anche le riflessioni dei primi teologi dell’Occidente, che contrapponevano il visivo al visibile.

Rimane centrale la nozione benjaminiana di declino dell’aura, un’aura che l’arte contemporanea sembra tuttavia riacquistare attraverso l’attivazione di una dimensione “rituale”, partecipativa.
In questa direzione si colloca anche la Tarlatana, che incontriamo ad un certo punto del percorso e che a sua volta evoca lo Zerbino, opera assente in questa esposizione.
Collocata a terra, la Tarlatana si presenta come forma residuale, opaca. Traccia indistinta di una forma del passato, orma sfocata che abita un territorio incerto dove il tentativo di comprendere viene continuamente deluso.
Questo collocarsi in uno spazio indistinto, problematico, rende la Tarlatana luogo di riflessione, come il tappeto-zerbino di Jo em confesso (2003), e di Land of Prayer Alias, (2014). Nell’attuale mostra lo Zerbino è un’assenza invadente, una promessa mancata.
Terra-tappeto di preghiera, è desiderio di incontro e di trasformazione. E’limen e suo oltrepassamento, spazio di raccoglimento, di partecipazione rituale, di superamento dei bordi dell’identità. Territorio di contatto con il nulla di Meister Eckart e con l’abisso heideggeriano, dove l’invito all’ascolto rende possibile un pensare- oltre.


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